RIASCOLTARSI

Una delle pratiche più comuni per i musicisti è quella di suonare, registrare e poi riascoltarsi; un esercizio che, pur nella sua semplicità, nasconde una complessità che va oltre la tecnica.. in fondo, il vero obiettivo è riuscire a percepirsi al di fuori di sé, staccandosi dal proprio corpo, per osservare la propria musica da una prospettiva diversa.


Tutti conosciamo la nostra voce nel momento in cui la emettiamo, nel suo passaggio attraverso le nostre corde vocali, nel suo rimbalzo attraverso il corpo; lo stesso vale per il suono di uno strumento: il basso, ad esempio, lo percepiamo rimbalzare nell’aria, amplificato e diffuso nella stanza, ma la nostra percezione cambia drasticamente quando ascoltiamo la nostra voce o la nostra performance registrata: non siamo abituati ad ascoltarci attraverso un microfono, nemmeno se è il miglior microfono che possiamo trovare. 

Questo accade perché quello che percepiamo mentre cantiamo o suoniamo in tempo reale non è mai esattamente lo stesso che ascoltiamo durante una riproduzione; le vibrazioni che sentiamo dentro il nostro corpo — attraverso le ossa, i muscoli, gli organi — creano una realtà sonora che non può essere completamente catturata o riprodotta da un microfono: ciò che sentiamo mentre suoniamo rimane una sorta di “esperienza interna” unica, che sfugge alla registrazione.


Per questo motivo, la pratica di riascoltarsi è fondamentale: non importa se si dispone di strumenti semplici o di attrezzature professionali, il punto è sentire come suoniamo al di fuori della nostra testa, come quella vibrazione, quel suono, si diffonde nello spazio che ci circonda. 
Riascoltarsi ci permette di notare quelle sfumature sottili, quelle piccole imperfezioni o quei momenti di intensità che, durante l’esecuzione, rischiamo di non percepire pienamente; in questo processo, iniziamo a interpretare noi stessi in modo più consapevole. Impariamo a modulare il suono, a capire dove è necessario spingere di più, dove bisogna stare più sul tempo, dove è meglio rallentare. In sostanza, riascoltandoci, possiamo imparare a rappresentarci nel modo in cui vorremmo essere ascoltati, fuori di noi. 


È un atto di traduzione: quello che percepiamo dentro deve essere comunicato, trasformato in qualcosa che risuoni in modo chiaro e autentico nel mondo esterno.. con l’esperienza, man mano che suoniamo, registriamo e ci riascoltiamo, la nostra capacità di capirci e farci capire cresce; è un circolo virtuoso che porta a una maggiore consapevolezza musicale e personale. I grandi musicisti hanno integrato questo processo a tal punto che spesso sembrano in grado di trovare il momento giusto, l’intensità perfetta, la concentrazione ideale: sanno come rendere la loro performance unica, anche in condizioni non ottimali, sanno quando spingere, quando ritirarsi, come modulare la propria energia, anche in mezzo a piccole interferenze o distrazioni.


Quando per la prima volta ascoltiamo la nostra voce registrata, non possiamo fare a meno di pensare: “Ma chi è quello? Non è affatto come la sento io!” 
Anche se oggi, con la proliferazione degli smartphone, siamo più abituati a registrarci e ascoltarci, resta il fatto che il suono che percepiamo dentro di noi è sempre diverso da quello che sentiamo una volta che è “trasposto” nel mondo esterno: quella voce che ci sembra tanto familiare, all’improvviso diventa estranea, come se non appartenesse più a noi.


Ricordo di quando, da bambino, ero affascinato dal mondo della registrazione; passavo ore a registrare, riascoltarmi, risuonare, cercando di integrare ciò che avevo appreso da ciascuna registrazione. Era un processo che non mi stancava mai, che mi stimolava a migliorare, a evolvermi; oggi, nella fase del mixaggio, ritrovo ancora quel gioco di “andata e ritorno”, di assestamenti continui, cercando di non deviare troppo dal tema, di non inseguire colori troppo saturi o distorsioni inutili.


C’è qualcosa di estremamente bello e profondo nel saper ascoltare se stessi: è un atto che va oltre la tecnica: piegare la propria abilità alla forza dell’espressione, riuscire a comunicare al di fuori dei confini della nostra mente.. è un processo che ci permette di raggiungere gli altri, di toccare altri cuori.
Tuttavia, c’è anche un aspetto struggente in questo processo: ascoltarsi può significare confrontarsi con una parte di noi che è dolorosa, che appartiene a momenti difficili del passato; in quei momenti, riascoltarsi non è mai facile. Ogni volta che il dolore riaffiora, per un istante, ci sembra di rivivere la stessa sofferenza; a volte riusciamo a superarla, altre volte quella sensazione cambia forma, diventando diversa o addirittura distante, ma quando il dolore risuona, è difficile rimanere imparziali. 
Come possiamo essere gli arbitri di noi stessi, quando siamo ancora troppo legati al peso di certe emozioni?


E così, si torna a suonare, registrare, riascoltare; la prossima volta sarà diverso. E ogni volta che ripetiamo il processo, impariamo qualcosa di nuovo su noi stessi, sul nostro suono, sulla nostra capacità di comunicare.
Oggi, mi prendo una piccola pausa. Ascolto 4 minuti e 33 secondi di silenzio.

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