L ‘impronta non è l’animale

Ascolti una traccia e senti che c’è qualcosa lì dentro: la voce, la batteria, la chitarra, tutto ti sembra vivo, ma se ci pensi davvero, quello che stai ascoltando non è la realtà, è un’interpretazione, un momento che qualcuno ha catturato e trasformato in qualcos’altro; come guardare un film.

Ti coinvolge, ti emoziona, ma non è il momento vero, è un’elaborazione, c’è un dietro alle quinte, c’è un regista, un attore: la musica registrata non è diversa. È un po’ come trovare un’impronta di Irritator in un pezzo di roccia: non hai l’animale davanti, ma una sua traccia; eppure quella traccia ti parla, ti racconta una storia.

La musica registrata funziona così: non cattura l’esperienza reale, ma qualcosa che le si avvicina, un’ombra luminosa che puoi toccare. Io l’ho capito presto, da ragazzino, giocando con un registratore a cassette, registravo tutto: il rumore della doccia e tutti i rubinetti aperti del bagno diventavano le cascate del Niagara, i dialoghi di casa si trasformavano in indagini sonore, e poi, riascoltando, mi rendevo conto che quello che avevo catturato non era mai come me lo sentivo in diretta.. era diverso: una versione distillata, imperfetta, ma con una sua autenticità. E questo è il punto: ogni registrazione è una mediazione tra la resa sonora e la sua codifica per essere memorizzata: non puoi catturare la realtà pura, non esiste un modo neutrale per farlo e forse non esiste neppure una realtà non soggettiva.

Un piccolo me di 15 anni al telefono con il mio allenatore di ciclismo

Ogni microfono, ogni equalizzatore, ogni riverbero è una scelta che definisce il messaggio stesso – si il medium è una parte del messaggio – anche se registri una performance dal vivo, stai comunque decidendo cosa tenere e cosa lasciare fuori, cosa può rappresentare, cercando la massima espressione possibile – un tira e molla tra tecnica e cuore – l’orecchio nello stomaco, il mixer spinto come un fuoco: quello che ascoltiamo è sempre il prodotto di un processo. Per me, diventare ingegnere del suono è stato un modo per imparare a rispettare questo processo, per trovare quella linea sottile tra il momento artistico e la sua rappresentazione; è quello che senti nei grandi dischi: Nevermind ti fa arrivare il messaggio oltre la materia fisica con cui è stato creato; Anima Latina ti avvolge in un mondo costruito nota dopo nota, ma che sembra un unico flusso creativo; è quella la magia, lo stato di grazia che si insegue quando si crea musica: l’impronta diventa così vicina all’animale che ti convince, ti prende, lo vedi, lo senti.

Oggi, con tutta la tecnologia che abbiamo, il gioco è ancora più semplice e complesso: puoi manipolare ogni dettaglio, puoi fare suonare tutta l’orchestra di Vienna su un portatile possibilmente Mac M1

Ma non importa quanto siano precisi i campionamenti e le simulazioni, il risultato sarà’ sempre un impronta: una canzone non è mai “reale” come ce la immaginiamo, ma questo non la rende meno potente. Mi piacciono gli studi dove non ci sono separazioni nette, dove chi suona e chi registra condividono lo stesso spazio, lo stesso disordine ordinato, lo stesso respiro spesso troppo caldo o troppo freddo: è lì che succede qualcosa di magico, artistico: lo stato di grazia. 

Una buona registrazione non è solo tecnica: è un momento che decidi di catturare e di rendere eterno, entro nei limiti della nostra specie, della nostra isola. 

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